Il rito perduto: come allestire una mostra fotografica
In occasione della 1° edizione di Vignaioli in Fortezza, festival indipendente di vini artigianali, organizzato a Civitella del Tronto (TE) il 12 e il 13 maggio 2024, ho avuto il piacere di curare la mostra fotografica di Marco Di Marcantonio, fotografo teramano specializzato in fotografia sociale. Conosco Marco da diversi anni e apprezzo molto il suo lavoro, per cui sono stata felice di occuparmi della sua mostra personale dal titolo “Il rito perduto: l’antica pratica dell’uccisione del maiale”.
Cosa significa curare una mostra fotografica?
Se sei un* appassionat* di fotografia o un* fotograf* che muove i primi passi nel mondo professionale, questo paragrafo è di grande aiuto. Se, invece, hai esperienza con le mostre fotografiche, saprai sicuramente quanto sia importante il ruolo di un* curator* per valorizzare il proprio lavoro.
Immaginiamo la mostra fotografica come un iceberg: la parte emersa rappresenta le fotografie in mostra, la parte sommersa tutto il lavoro che viene svolto nelle settimane o nei mesi precedenti all’evento dall’autore e da altre figure professionali coinvolte nel progetto. Se le persone che visitano la mostra tornano a casa con la sensazione di aver compreso e apprezzato il lavoro esposto e di aver trascorso del tempo di qualità, il lavoro di curatela è stato svolto in modo ottimale!
Curare una mostra significa:
1. scegliere la location più adatta per il progetto
Per la mostra “Il rito perduto” abbiamo esaminato 4-5 spazi espositivi al chiuso e all’aperto, nel borgo di Civitella del Tronto. La scelta è ricaduta su un androne con la muratura a vista, sufficientemente ampio per accogliere le immagini selezionate, perfetto anche in caso di pioggia e in linea con il tema del progetto fotografico.
2. individuare la sequenza definitiva del lavoro
Scegliere le immagini è una delle attività più complesse, anche per i fotografi professionisti. Per questo motivo esistono figure professionali specifiche (photo editor e curatori) che creano o aiutano a definire una struttura narrativa efficace, tenendo in considerazione il contesto in cui il lavoro viene esposto e il pubblico a cui è indirizzato.
3. scegliere dimensioni e supporto di stampa
Quando si pensa alle foto stampate, la prima immagine che viene in mente è il classico formato 10 x 15 cm su carta lucida, tipica degli album di famiglia. In realtà, esistono infinite soluzioni di stampa, dalle più tradizionali alle più creative: supporti rigidi, stampe con cornici, stampe sciolte applicate alle pareti con dimensioni e carte diverse. In questo caso Marco aveva già le idee chiare: ha scelto una carta Hahnemühle Photo Rag e una cornice classica di colore nero con passepartout bianco.
4. proporre soluzioni allestitive che valorizzino le fotografie
Le scelte espositive si basano su diversi criteri: il budget a disposizione, la tipologia di lavoro e, ovviamente, lo spazio in cui la mostra verrà allestita. Lo spazio non è mai neutro, ma contribuisce attivamente all’esperienza del visitatore e a come le immagini vengono percepite. Per “Il rito perduto” ho proposto 3 soluzioni espositive differenti (Fig.2) e Marco ha scelto la narrazione per dittici (coppie di immagini). Nel testo critico, poco più avanti, troverai un approfondimento su questo aspetto.
5. produrre contenuti testuali per presentare il progetto
Il detto “una fotografia parla più di 1000 parole” porterebbe a pensare che le immagini non abbiano bisogno di accompagnamento testuale. Eppure ogni mostra inizia proprio con un testo introduttivo, che presenta l’autor* e il lavoro, e consente a chi entra nello spazio espositivo di acquisire le informazioni più importanti.
In questo caso, abbiamo realizzato un pannello di sala con l’introduzione scritta da Marco, la sua biografia e il mio testo critico, che troverai nel paragrafo successivo.
Approfondimenti
La curatela di una mostra, anche fotografica, include tanti altri aspetti che, in questo caso, non sono stati affrontati, come il fundraising e la promozione dell’esposizione.
Se desideri approfondire questo argomento, ti consiglio di leggere il libro “The Curator’s Handbook” di Adrian George, edito da Thames & Hudson.
Il testo critico della mostra fotografica “Il rito perduto”
Riti di passaggio, sacrifici propiziatori, balli e ninne nanne sussurrate all’orecchio.
Dagli anni Sessanta Ernesto De Martino, antropologo ed etnologo meridionalista, ha condotto i lettori nel ventre di un’Italia minore, ricca di storie mai raccontate.
Grazie al contribuito di autori e autrici impegnati nella fotografia sociale, si costruisce, gradualmente, una geografia visuale della penisola, in cui le tradizioni millenarie convivono con la ripresa economica e le lotte studentesche.
Mario Cresci, Ferdinando Scianna, Mario Giacomelli sono alcuni dei grandi fotografi andati alla ricerca delle radici in luoghi remoti, oggi perduti.
Del paesaggio sonoro del nostro Abruzzo si è preso cura don Nicola Iobbi, un parroco animato da una grande passione per l’etnomusicologia e la fotografia. Ha dato voce, con le sue registrazioni, alla comunità montana del Gran Sasso, salvando dall’oblio poesie, filastrocche e canti in dialetto.
“Il rito perduto: l’antica pratica dell’uccisione del maiale” di Marco Di Marcantonio s’inscrive nel solco tracciato dalla fotografia sociale e dell’antropologia degli anni Sessanta e Settanta, alla ricerca di tradizioni autentiche e immutate nelle zone più isolate d’Italia, come Cavuccio, piccola frazione del comune di Teramo, in cui il tempo continua a essere scandito dal ciclo delle stagioni.
Sappiamo che le catene montuose, come le colline, uniscono e al tempo stesso separano: le piccole comunità custodiscono più facilmente le ritualità, grazie al loro isolamento geografico, ma al tempo stesso combattono contro lo spopolamento e l’overtourism, per tenere al riparo le tradizioni da un mondo globalizzato che cambia troppo velocemente.
La mostra è un’ode alla lentezza e all’ecologia dello sguardo, invita il visitatore a cogliere il significato delle immagini, senza fretta, soffermandosi sul valore simbolico di dettagli e oggetti rituali.
Una mano, le setole irte del maiale, il proiettile, il sangue, il bicchiere di vino.
Le foto procedono a coppie, lentamente, come il protagonista della storia raccontata da Marco Di Marcantonio, di cui vediamo il bagliore degli occhi, nell’oscurità della stalla.
I frammenti di azioni sono una metafora visiva: la metonimia. La parte per il tutto, proprio come nelle poesie: il ramo allude all’intero albero, la zampa sospesa al maiale.
Nel progetto fotografico sono le mani e i piedi dei personaggi a guidarci nella storia, a mostrarci le lame e i proiettili che decreteranno la fine di una vita e l’inizio di un nuovo anno di abbondanza e prosperità, secondo la tradizione contadina.
Lo sguardo del visitatore si sposta gradualmente dall’alto verso il basso, guidato dalle analogie formali che ricorrono tra una foto e l’altra, dall’alternanza di azioni e dettagli e dal rosso cupo del sangue che intride il terreno.
Il fotografo allude alla macellazione, senza soffermarsi sugli aspetti più cruenti, per dare spazio e importanza al momento conviviale che chiude il cerchio della ritualità.
Dopo aver lavorato le carni e ricavato, dagli scarti, cicoli e sanguinaccio, i protagonisti si stringono intorno al tavolo per condividere un pasto insieme, con un bicchiere di vino in mano, dandosi appuntamento all’anno successivo.
Un anno è un tempo quasi infinito se paragonato alle logiche della grande distribuzione e alla sovrapproduzione dell’allevamento intensivo, completamente estranee a un processo che garantiva il sostentamento delle famiglie abruzzesi nei lunghi mesi invernali.
Un anno è il tempo rituale che dà valore e sacralità alle azioni ereditate dal passato, in un presente in cui l’approvvigionamento di cibo non è più il punto nodale, ma il “fare insieme” resta il collante di una frazione di duecento abitanti.
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